E sei il vino si polarizza?

Capita che amici o conoscenti mi chiedano come mai, a mio parere, quando devono acquistare un vino, si trovino sempre più spesso di fronte a una forte polarizzazione dell’offerta. Da un lato la scelta delle bottiglie è focalizzata su marchi conosciuti nazionalmente (che si tratti di Antinori, Ruffino, Ferrari, Mionetto, Villa Sandi, Frescobaldi, Donnafugata o altri), al caso affiancati da etichette “sicure” regionali e locali. Dall’altro, carte dei vini (con una fetta crescente della ristorazione di “fine dining”) ed enoteche che scelgono di focalizzarsi su produttori molto schierati verso una produzione artigianale, alle volte anche in modo “hard”.

È solo questione, nel primo caso, di potenza commerciale e investimenti promozionali o, viceversa, di assecondare mode e ricerca spinta dell’individualismo?

Una ricerca presentata a Vinitaly nel 2018 sui consumatori nazionali sottolineava come solo il 25% degli italiani sa riconoscere le principali zone di produzione vinicole e collegarle alle regioni geografiche. Questa percentuale è molto minore all’estero, soprattutto in quei paesi dove il vino non è una bevanda abituale e parte di una cultura alimentare sedimentata. Pochi wine drinker sanno riconoscere più di tre zone vinicole in Australia, ad esempio.

Ciò significa che i consumatori, quando vogliono acquistare una bottiglia, ma anche un calice di vino, se non trovano qualcosa di conosciuto e che a loro piace, vogliono evitare di trovarsi in una situazione di disagio. Il segmento dei consumatori che ricercano spesso novità, infatti, é importante ma, comunque, molto minoritario rispetto agli altri. Spesso, questa continua ricerca porta con se’ un consumo poco focalizzato (basta che sia “nuovo”) e, di conseguenza, una scarsa fedeltà alla marca e ai territori (da qui una riconoscibilità in calo).

A differenza di una lattina di birra o un vasetto di yogurt il vino spesso non viene bevuto dal solo acquirente ma spesso la bottiglia viene condivisa con altre persone, in una situazione famigliare o sociale. Quindi, può succedere di trovarsi in imbarazzo nello scegliere qualcosa che gli altri possono non apprezzare. Si parla, infatti, di avversione al rischio, anche se il costo da sostenere é relativamente basso. Un brand conosciuto, infatti, abbassa la percezione del rischio, così come l’appartenenza a una nicchia dove il consumatore si riconosce, alle volte quasi ideologicamente (es. “non bevo vini convenzionali”).

Tenendo questo a mente, le cantine non devono dare per scontato che i consumatori conoscano tutto della loro storia, dei vitigni, delle DOC, le tecniche di produzione o gli abbinamenti con il cibo. Ma questo spesso ancora non avviene!

Se vogliamo parlare ai consumatori che amano il vino ma non sono depositari di particolari conoscenze o frequentatori di ipernicchie, dobbiamo in qualche modo avere una proposta unica di vendita che faccia leva su un linguaggio semplice, comprensibile e accattivante, coerente con la nostra identità, da declinare nei diversi strumenti di comunicazione fino all’accoglienza in cantina.

Viceversa le persone sceglieranno sulla base di alcuni fattori molto ben specifici che semplificano il loro processo di acquisto: il prezzo (e le promozioni), il brand famoso o reputato, l’occasione d’uso oppure semplicemente la categoria, dove questa può essere il Prosecco (o lo Spritz), il rosé o lo stesso vino “naturale”.

E tutti gli altri?

È la globalizzazione, bellezza

Su Linkedin ho trovato, riportato dall’amico e collega Rodrigo Lanari (che è stato intervistato), un articolo molto interessante su come alcuni brand vinicoli globali si stiano muovendo per conquistare o per rientrare in mercati dove fattori esterni (politici o economici) hanno variato sensibilmente la loro competitività.

In prarica, per aggirare gli alti dazi (219%) imposti da un paio di anni dal governo cinese sui vini australiani, Casella Family stringe una partnership con la cantina cilena Santa Carolina, iniziando a produrre l’etichetta [Yellow Tail] in Cile. [Yellow Tail] è stata considerata da Wine Intelligence come il marchio vinicolo più forte al mondo (non il più prestigioso, intendiamoci, ma quello che ha più potere sui consumatori globali). Ciò le consente riprendere in mano il mercato senza quasi che i consumatori se ne accorgano. Ma non basta: quella cilena sembra essere solo la prima esperienza, in quanto rientra nella creazione di una più ampia linea chiamata [Yellow Tail World Series], come scrive anche Natalie Wang su Vino Joy News.

La mossa si rivela strategica per accaparrarsi una fetta della rivale Penfolds nel mercato cinese. Mentre la Cina rappresentava solo il 3% del fatturato della famiglia Casella e di [Yellow Tail] nel 2021, per il concorrente Penfolds (marchio australiano del gruppo TWE – Treasure Wine Estates), il mercato cinese ha rappresentato lo scorso anno il 25% del fatturato e quest’anno il risultato è stato mediocre.
Tuttavia, la soluzione di Penfolds è stata quella di dirigersi in Sud Africa, dove hanno iniziato a produrre la linea Rawson’s Retreat, realizzata con uve sudafricane e in vendita esclusiva per la Cina. Penfolds ha, inoltre, in progetto di aprire un’azienda vinicola in Cina e produrre tutto localmente.

Parallelamente, la californiana Barefoot ha anch’essa iniziato a imbottigliare vino cileno per rivolgersi in primis al mercato sudamericano, a iniziare da quello in crescita del Brasile. Il nome Barefeoot viene prima della questione dell’essere californiano o cileno.

Potere della globalizzazione o del brand?

Quando nel vino l’innovazione nasce dall’esterno

Ho trovato su Linkedin la notizia di questa ricerca, commissionata dal Monopolio degli alcolici svedese, Systembolaget, sulla sua filiera di acquisto del vino in Italia, nella quale vengono analizzati aspetti quali i diritti umani, le relazioni sindacali e, in generale, la responsabilità delle imprese coinvolte in tutta la supply-chain. Quindi anche quella del monopolio stesso che ne acquista e vende i vini.

Questa ricerca (che devo ancora leggere) riporta una valutazione illustrativa dell’impatto sui diritti umani (HRIA – Human Rights Impact Assessment) della supply chain del vino di Systembolaget, miravando a valutare gli impatti effettivi e potenziali sui diritti umani nella fase di produzione della catena del valore in Italia, a identificarne le cause profonde e a fornire raccomandazioni alle parti interessate in merito alla loro prevenzione, mitigazione e/o riparazione.

Il rapporto mostra che ci sono molte sfide tra cui lo sfruttamento dei lavoratori migranti, la mancanza di sindacalizzazione, salari insufficienti e mancanza di dispositivi di protezione individuale in regioni come Piemonte, Toscana, Puglia e Sicilia. E i risultati possono applicarsi anche ad altri paesi produttori di vino in Europa e in tutto il mondo.

La responsabilità sociale è diventata per Systembolaget uno dei pilastri della propria attività, sia interna (dopotutto vendono alcol!) che nella gestione della propria supply chain, coinvolgendo sempre più i propri fornitori con contratti e obiettivi molto stringenti e norme da rispettare per poter ambire ad essere distribuito. Non dimentichiamo che l’Italia è il più grande paese di origine per i consumatori di vino svedesi e la Svezia è il quarto mercato di esportazione per valore per i vini italiani.

Quindi, bisogna prestare attenzione se Systembolaget così commenta i risultati di questa ricerca: “Vogliamo fare la differenza per le persone nella nostra catena di approvvigionamento! Questa relazione ci aiuterà a prevenire e gestire meglio le violazioni dei diritti umani. Ci impegniamo a continuare questo viaggio e a trovare modi pratici insieme ai nostri partner commerciali e alle parti interessate.”

Quando Systembolaget e gli altri Monopoli (ma il discorso può applicarsi anche alle catene distributive private) propongono tender per spingere i fornitori ad una maggiore trasparenza, oppure a favorire la fornitura di bottiglie più leggere, contenitori o chiusure alternative, fino a sostenere l’importazione di volumi maggiori di vini biologici, si pongono non solo come regolatori dell’offerta ai consumatori, ma spesso anche della domanda.

Se vogliamo citare Porter e il modello delle 5 forze, siamo in una chiara situazione in cui l’estremo potere contrattuale degli acquirenti (i Monopoli in alcuni Stati) sia in grado di modificare il mercato e, di conseguenza, l’offerta stessa stabilendo barriere all’ingresso (chi si adegua vende, gli altri stanno fuori). Barriere che permetterebbero, a chi le supera, di assumere un vantaggio competitivo solido sui concorrenti. Barriere che possono essere superate attraverso l’innovazione, dimostrando come l’innovazione nel settore sia spesso dovuta più a cause esterne che interne.

Iniziamo a pensare, quindi, che il termine “innovare” può assumere vari aspetti: non riguarda solo il prodotto, ma può essere applicato all’azienda stessa, alle sue pratiche gestionali, amministrative e commerciali, fino al suo ruolo sociale. E che qualcuno ci sta dando sempre maggiore importanza.

La geografia del lusso cambia. Deve cambiare anche la comunicazione del vino?

La Cina, dopo il difficile biennio della pandemia che stiamo ancora passando, potrebbe essere ancor più del passato un’occasione da non perdere per le aziende vinicole italiane del retail.

L’economia cinese, infatti, sembra aver sofferto meno di altri paesi degli effetti della pandemia, riuscendo a riprendersi più velocemente, con un tasso di crescita che diversi analisti hanno stimanto attorno all’8-9%. Questo scenario può aprire le porte a un rimbalzo dell’export vinicolo italiano che, negli ultimi anni si è un po’ arenato?

Da diverse ricerche e dal confronto con operatori di aziende vinicole che ci lavorano da anni, è confermato che fare affari in Cina non è un’operazione che si può improvvisare: non basta partecipare a una delle tante fiere o missioni commerciali (quando anch’esse torneranno alla normalità) per trovare un importatore. Allo stesso modo, una volta presenti sui listini degli importtori, non è semplice costruire una distribuzione caratterizzata da continuità e dal giusto posizionamento.


Vino e lusso in Cina (Foto da Jing Daily)

Le aziende vinicole, specialmente se piccole, fanno fatica ad entrare in Cina proprio per la loro dimensione, ma anche per una capacità manageriale e di conoscenza delle dinamiche del mercato stesso ancora limitate. Se la vivacità del mercato cinese di qualche anno fa lasciava pensare vi fosse ampio spazio per tutti, col tempo si è verificato sul campo che, per essere competitivi in Cina, serve un lavoro di preparazione, analisi dei consumatori e dei concorrenti, decisioni sui canali giusti attraverso i quali fare promozione e vendita, nonché una più ampia verifica dei prodotti, packaging compreso.

In un mercato come la Cina, che segue delle dinamiche molto specifiche, è importante comprendere in cosa è differente dal resto del Mondo, soprattutto da quello occidentale. I consumatori, ad esempio, grazie alla penetrazione del mobile sono molto più digitalizzati. Allo stesso modo, per un consumatore cinese cambia la percezione di ciò che è “attraente” e del significato che hanno i prodotti e i loro marchi. I consumatori cinesi, infatti, hanno forti differenze culturali rispetto a quelli occidentali e i brand italiani non vendono in Cina solo grazie al prestigio e alla conoscenza del nostro “Made in Italy”, che premia tanti prodotti, dalla moda al lusso, dal design all’agroalimentare. Non basta più avere un buon prodotto quale un vino di qualità e puntare sul lifestyle italiano per raggiungere il successo commerciale sul mercato cinese.

Soprattutto, bisogna conoscere come il mercato cinese sta cambiando e con esso i consumatori della nuova classe media che si possono permettere i prodotti occidentali quali il nostro vino. Ricordiamo, ad esempio, che già qualche anno fa Wine Intelligence aveva stimato che l’audience realmente interessata al vino importato è di circa 50 milioni di persone, a fronte di un miliardo e 400 milioni di abitanti!

Soprattutto in Cina sta cambiando il mondo legato al lusso, come ho recentemente letto in un interessante articolo pubblicato dal magazine JingDaily intitolato: “Why China Is The Only Luxury Superpower“. In pratica, in Cina stanno nascendo città focalizzate sul lusso per fare concorrenza ad altre destinazioni internazionali. Una di esse è l’isola di Hainan, diventata una destinazione di intrattenimento/viaggi/shopping che potrebbe, in pochi anni, rivaleggiare con Dubai e con i duty-free coreani, grazie una generosa fiscalità che sta reindirizzando i clienti da altre destinazioni ai negozi all’interno della Cina.

Come sarà Hainan (Foto da Attracion Management)

Oggi, il rimpatrio verso il consumo interno è uno dei cambiamenti più profondi che stanno avvenendo nel segmento del lusso. Alimentati dalle restrizioni ai viaggi legate al Covid, alcuni marchi di lusso hanno visto un aumento del 60-80% delle entrate in Cina nel 2020, mentre l’industria è crollata in altre aree del mondo. Alcune previsioni stimano che la Cina rappresenterà più del cinquanta percento del mercato globale del lusso già nel 2025 rispetto alla precedente previsione del 2030.

E la crescita del consumo di lusso domestico cinese continuerà a crescere dopo che circa 400 milioni di persone saranno passate da famiglie a basso reddito a famiglie di classe medio-alta nei prossimi anni. Questa crescita alimenterà sicuramente un’ulteriore domanda di beni di lusso in Cina.

Inoltre, anche la generazione Z cinese, la generazione più ricca e digitale, sta scuotendo il mercato. Questi Gen Zer non sono solo ottimisti con un’alta propensione alla spesa per i marchi di lusso, ma sono anche molto più patriottici rispetto alle generazioni precedenti.

In un altro articolo, che riprende uno studio di Altagamma, ho letto che l’Italia, sebbene sia il Paese più desiderato dai “luxury travellers”, ma non quello più visitato: prima è la Francia, seconda la Gran Bretagna, terzo il Belpaese. Tra i fattori critici identificati ci sono una minore percezione di “standard di qualità” in strutture e servizi, la mancanza di un’offerta di intrattenimento e di eventi per un pubblico affluente globale, la complessità logistica di un Paese ricco di bellezza diffusa sul territorio, la mancanza di pochi messaggi chiari alla massa critica.

In un’intervista al Vinitaly Wine Ambassador J.C. Viens, pubblicata da Wine Meridian, si scrive giustamente che, per avere successo in Cina, dobbiamo capire il rapporto del consumatore cinese con il lusso e con le modalità attraverso le quali il consumatore cinese si sente ispirato dal lusso italiano e dai quei prodotti che forniscono una forte sensazione di poter arricchire la qualità del loro stile di vita. “Per diversi anni ho sostenuto il seguente approccio in questo mercato affascinante: in Cina, il vino non è un bisogno (una merce), è un desiderio (una voglia), quindi il modello di marketing del lusso è forse l’unico approccio per il successo”, dice Viens. “L’essenza del lusso è offrire un valore estremo, un valore non dettato dal rapporto tra prezzo e qualità, bensì legato valore è il grado in cui un vino può generare una profonda emozione. Così come la moda italiana ispira i consumatori cinesi a sentirsi bene con se stessi, i vini italiani devono convincere che possono ispirare lo stesso”.

Forse, per raggiungere questi nuovi consumatori, è venuto il momento per ripensare la tradizionale strategia di promozione del vino italiano, basata su modelli occidentali quali l’abbinamento, la quotidianità del vino a pasto, i micro-terroir e, invece, costruire una percezione ispirata al mondo del lusso, capace di attirare non solo quei turisti che già visitano l’Italia ma anche quelli che non lo fanno o, addirittura, si preparano a frequentare destinazioni del lusso all’interno della Cina stessa?

Perché sarebbe un problema ridurre l’alcool nei vini?

Ritorno sul tema dei vini a basso o zero contenuto alcolico che è stato oggetto del mio precedente post per qualche ulteriore considerazione, visto che la materia è in pieno fermento (termine più appropriato non esiste!).


Vediamo apparentemente scontrarsi una posizione ideologica maggioritaria (“non cederemo mai a vedere annacquare il vino!”) con una posizione mercantile minoritaria (“perché lasciare questo segmento di mercato ad altri?”). Tuttavia, al tavolo secondo me siedono anche altri giocatori che in questa discussione non vengono considerati: chi ha una posizione neutrale e, soprattutto, il consumatore.

Non ci sono più dubbi che grandi operatori del settore abbiamo scelto di investire pesantemente in questo segmento, come prova anche Casella Wines, produttori del famoso marchio [Yellow Tail], che ha da poco lanciato la linea Yellow Tail Pure Bright, oggi distribuita in diversi paesi, come potete leggere nelle news di Unione Italiana Vini.

Pure Bright è il più grande lancio commerciale e promozionale di [Yellow Tail] degli ultimi anni e si basa su un’ampia ricerca sui consumatori sull’occasione e sui messaggi del marchio per garantire che il vino mantenesse un valore emotivo con il brand oltre il semplice consumo di calorie e carboidrati inferiori.

Per la cronaca, Pure Bright è disponibile in tre varietà:

Chardonnay: Light and refreshing taste, with fresh peach and melon flavors and a hint of vanilla. Per 5fl.oz.: Calories 85, Carbohydrates 1.1g, ABV 9.6% (compared to 120 calories, ABV 13%, for [ yellow tail ] base Chardonnay)
Pinot Grigio: Light and refreshing taste, bursting with apple, pear, and passionfruit flavors. Per 5fl.oz.: Calories 80, Carbohydrates 1.5g, ABV 8.5% (compared to 107 calories, ABV 11.5% for [ yellow tail ] base Pinot Grigio)
Sauvignon Blanc: Light and refreshing taste, bursting with zingy passionfruit and grapefruit flavors. Per 5fl.oz.: Calories 80, Carbohydrates 0.6g, ABV 8.5% (compared to 107 calories, ABV 11.5% for [ yellow tail ] base Sauvignon Blanc)

Come leggete sopra, il tema delle calorie è un punto chiave della loro comunicazione. L’alcool non solo fa male (se in eccesso), ma è comunque una componente che deve essere gestita con parsimonia all’interno di una dieta, soprattutto se vogliamo praticare uno stile di vita improntato sul “wellness”, come in molti consumatori.

Vedremo se questo ed altri vini analoghi avranno il successo che molti predicono per la categoria. Quello che ritengo sia importante è, come sostiene anche UIV, di mantenere anche nell’Unione Europea la discussione e la legislazione all’interno del contesto del vino, per non regalare questo segmento e quello dei prodotti dealcolati all’industria del beverage.

Da un lato per un maggiore controllo e per non risultare puri fornitori di materia prima indifferenziata, a basso prezzo, da dealcolare, dall’altro per poter sviluppare nuovi segmenti di mercato e offrire risposta ai bisogni emergenti di diversi consumatori che vorrebbero rivolgersi al vino, ma che il vino non può (o non vuole) ascoltare.

Se il Nuovo Mondo si muove e produce decenti vini commerciali ad un livello inferiore di alcool, investendo non solo nel marketing ma anche in una filiera produttiva che inizia dalla fase agronomica (varietà meno produttrici di zuccheri, portainnesti adeguati, gestione della chioma etc.), penso dovrebbe essere da stimolo anche per la vecchia Europa, che non può stare seduta a guardare. Ricordiamo che i disciplinari DOC prevedono generalmente una gradazione minima che può essere derogata solo in casi specifici.

Alla luce dell’impatto dei riscaldamento globale, è innegabile che in molti vini il grado alcolico si sia innalzato negli ultimi 30 anni, con un numero crescente di consumatori che iniziano a porsi il problema dell’alcolicità per diversi motivi (sensibilità, pesantezza nella beva, maggiori calorie, paura dei test se guidano…). Una tendenza alla moderazione nel grado alcolico del vino, che vede già premiare in molti mercati tipologie ed etichette di più facile accessibilità, potrebbe spingere anche i vini DOC/DOCG più strutturati a trovare una soluzione (che non è l’aggiunta di acqua al mosto) per ovviare alla loro ormai affermata potenza, recuperando quella freschezza e bevibilità che in tanti casi manca.

Ma quello dei vini a DOC dealcolati è un falso problema! Saranno infatti i vini senza indicazione geografica o, al massimo, gli IGT a doveri confrontare con queste emergenti categorie. Come nel caso di Casella, i vini a ridotto contenuto alcolico competono nella categoria dei varietali ed è sui varietali stessi (se ne manterranno le caratteristiche) che baseranno la loro riconoscibilità come vino. Un consumatore che si trova davanti all’alternativa, nella scelta sarà influenzato da alcune variabili che possono andare dall’occasione di consumo allo stile di vita o alle preferenze personali. In alcuni casi la chiave principale saranno il contenuto alcolico o le calorie e poi la scelta cadrà su un varietale e brand rispetto a un altro; in altri prima il varietale e poi il resto. Ma queste due nuove opzioni (minor livello di alcol e calorie) potranno influenzare un segmento non proprio irrilevante.

Poi c’è il discorso dei vini a zero alcol. Se, da un lato, il gusto sarà uno dei fattori imprescindibili per distinguere una bevanda da un “vino”, qualora sia superato anche qui il varietale avrà un suo peso. Chi vorrà un vino a zero alcol penserà ancora di bere un vino e, quindi, lo percepirà come un vino “tradizionale”, come chi opta per una birra analcolica pensa di scegliere una birra e non una bevanda luppolata.

Ma che ce frega, ma che ce importa, se nel vino ci han messo l’acqua?

Orrore! L’Unione Europea vuole imporre ai nostri grandi vini DOC e DOCG di aggiungere acqua per abbassare il grado alcolico. Questo è il livello medio della comunicazione a seguito di alcuni lanci stampa, ripresi da testate soprattutto non di settore che non hanno approfondito.

Come ha ben spiegato Jacopo Cossater su Linkiesta, in realtà si tratta di alcune proposte formulate tra i ministri dell’agricoltura dei Paesi dell’Unione Europea all’interno di una discussione sui vini dealcolizzati. Ma perché la UE si occupa di vini in tutto o in parte dealcolizzati?


In alcuni mercati, i consumatori continuano a percepire i prodotti a bassa gradazione alcolica come di qualità inferiore, in particolare quando si tratta di vino. Ecco perché una notizia mal riportata come quella indicata all’inizio, fa sicuramente presa sull’opinione pubblica.

Tuttavia, secondo diverse ricerche di mercato, quella delle bevande senza alcol o a basso contenuto è una delle categorie più in crescita nel mondo. IWSR, ad esempio, ritiene che i “No- and low-alcohol products are gaining share within total beverage alcohol, with growth expected to continue”, anche in questi mesi dove la pandemia ha condizionato di molto i consumi. Wine Intelligence, a sua volta, da tempo sta analizzando i trend dei segmenti di consumatori di vino che cercano prodotti senza o a basso contenuto di alcol, il cui comportamento di consumo è guidato da comportamenti distinti e da opportunità da considerare separatamente.

The Science Behind Why "Low Alcohol" Wine Matters for Your Health
Copyright: https://www.drperlmutter.com/low-alcohol-wine/

In generale, le bevande analcoliche sono consumate prevalentemente da persone che cercano di moderare il loro consumo di alcol. Invece, quelle a basso contenuto di alcol, sebbene in linea con la tendenza alla moderazione, tendono ad essere più popolari tra i consumatori che cercano caratteristiche specifiche legate a salute e benessere, come ingredienti a basso contenuto calorico o di zucchero e naturali. In pratica, sono attente alla dieta e alla nutrizione, ma non vogliono rinunciare al vino o alla birra se queste bevande riescono a coniugare un basso apporto di alcol e calorie con un gusto soddisfacente.

La tendenza alla salute e al benessere, fortemente allineata con il basso contenuto di alcol, è profondamente radicata in diversi mercati come gli Stati Uniti, il Canada o il Nord Europa, stimolando il successo dei vini a bassa gradazione alcolica e un interesse forse maggiore per quelli ad alcol zero.

Ed ora si iniziano a vedere aziende come l’australiana Feravina che scelgono strategicamente di mirare a questi segmenti di consumatori, promuovendo il brand come “A healthier way to wine: Australia’s premier health-conscious wine service, bringing you sommelier-selected organic and biodynamic natural wines with less sulphur, sugar and alcohol”. Allo stesso tempo, scelgono una comunicazione comparativa con quelli che definiscono i grandi brand mainstream (immagino Yellow Tail, Barefoot, McGuigan…), utilizzando il loro minore livello di calorie per litro e per bicchiere di vino come elemento distintivo.

I vini venduti sono così prodotti con uve raccolte a mano, coltivate con pratiche di agricoltura biologica e biodinamica sostenibili; limitati a 50 ppm di zolfo (ottimo per chi ha sensibilità) e sono privi di altri additivi; senza zucchero residuo (0,5 g di carboidrati netti a bicchiere); con un minor contenuto di alcol (<13,5% ABV); adatti ai vegani e a chi pratica diete.

Oh, non parlano di caratteristiche tecniche, di premi o di passione! Anzi, la loro missione è “portarvi vino, prodotto nel migliore dei modi, concentrandoci su ciò che conta per voi: Cosa c’è nella bottiglia, davvero? Come mi sento quando lo bevo? E infine, come mi sentirò dopo averlo bevuto?

Ma i testi di un loro post su Linkedin sono ancora più chiari:

Potresti essere sorpreso di sapere che possa esserci un bel po’ di zucchero nascosto nel vino che bevi!

Ci sono dei veri grandi trasgressori, come il Moscato e il Passion Pop, questi vini hanno più di 80 g/L di zucchero. A volte tanto quanto la Coca Cola!

⁠Altri vini a cui prestare attenzione sono quelli con zucchero sapientemente nascosto. Questi sono presumibilmente vini spumanti “secchi” e vini commerciali più economici. ⁠

⁠Infine, fai attenzione ai vini commerciali di grandi marche che vendono per meno di $15 a bottiglia. Questi vini, sebbene commercializzati come secchi, possono contenere fino a 12 g/L di zucchero. Questo perché sono fatti con uve economiche di scarsa qualità prive di sapore e lo zucchero maschera questo, rendendo i vini più fruttati e corposi.

Dai un’occhiata alle nostre pratiche immagini come riferimento!

In Feravina, selezioniamo solo vini che non contengono zuccheri non necessari, con solo tracce non fermentabili (meno di 3 g/L) consentite nei nostri vini. Al massimo, un bicchiere di uno dei nostri vini equivale allo zucchero contenuto nella spremuta di lime che avresti messo in una vodka soda. Perfetto se stai seguendo una dieta cheto e vuoi mantenere la chetosi o vuoi semplicemente evitare lo zucchero aggiuntivo in generale.

Quanto scrivono è, per me, un esempio lampante di come il macro trend legato alla salute e al wellness non può e non debba essere trascurato da chi fa vino Non c’è nulla da scandalizzarsi se la UE inizia a ragionare su quali risposte dare, anche normative, alle richieste e ai bisogni di fasce sempre più ampie della popolazione. In attesa che venga resa obbligatoria, anche per il vino, la dichiarazione in etichetta delle calorie e degli ingredienti, in linea con la richiesta di trasparenza che, come consumatori, chiediamo a chi produce ciò che mangiamo o beviamo…

I nomadi digitali e il vino

Tra i cambiamenti che la pandemia da Covid-19 potrà lasciare in modo strutturale nelle nostre vite alcuni riguarderanno sicuramente il modo di lavorare. Diversi studi stanno già ipotizzandoil parziale svuotamento delle città o, perlomeno, dei quartieri legati agli affari e agli uffici, con aziende che incentiveranno e renderanno comune il lavoro a distanza di molti dipendenti e collaboratori, con effetti anche sui salari e la contrattazione.


Ho letto in proposito un interessantissimo articolo su come il c.d. “smart work” stia cambiando le prospettive di alcune destinazioni turistiche, che si stanno attrezzando per offrire servizi dedicati a tutte quelle persone che, non essendo vincolate ad un ufficio, potranno essere libere di scegliersi il luogo dove lavorare. Quindi, perché non farlo in una località diversa e, possibilmente, piacevole?

“Il lavoro da remoto e il nomadismo digitale sono e saranno tra i trend più importanti del prossimo decennio. I paesi possono attrarre talenti e beneficiare di una sorta di turismo lento da parte di persone disposte a rimanere per un periodo di tempo più lungo, contribuendo a compensare il forte calo delle entrate del turismo leisure” scrive l’autore.

“Spesso, poi, questi lavoratori ‘da remoto’ hanno un potere d’acquisto più alto del turista medio e spendono di più senza causare l’impatto negativo del turismo di massa”.

Già ora, durante i diversi lockdown, abbiamo visto modificarsi i consumi di vino e i canali di vendita, come rilevato in più occasioni da Wine Intelligence:

  • aumento delle vendite per asporto o attraverso e-commerce
  • riduzione delle occasioni di consumo sociali, tipo quelle alla fine della giornata lavorativa nei locali degli aperitivi
  • crescita conseguente delle occasioni e della frequenza di consumo fra le mura domestiche, non necessariamente legate ai pasti

Possiamo quindi ipotizzare che i nomadi digitali, ossia coloro che sceglieranno di trovare nuove sedi per le loro attività lavorative a distanza, sposteranno anche i loro consumi di vino? Se si, come immagino, bisognerà trovarsi pronti a capire come rispondere a questi bisogni emergenti, in quanto non è detto che molte di queste destinazioni “turistiche” siano già attrezzate e servite da una distribuzione qualificata o ben assortita.

Allo stesso tempo, molte aziende vinicole, con i loro resort e agriturismi che, inevitabilmente, soffriranno per l’assenza di significativi flussi turistici leisure, potranno predisporre offerte specifiche per smart workers che trovino nelle campagne e nelle colline vitate luoghi adatti per trasferirsi?

To deliver or not to deliver?

Sembra che, a breve, si inaspriranno nuovamente le misure del Governo in merito al contenimento della pandemia. Come è ben noto, la ristorazione chiude già alle 18, con l’eccezione di quella alberghiera che, tuttavia, deve fare i conti con un turismo ridotto all’osso. Ne consegue che, cenando a casa senza aver potuto fare prima un giro di aperitivi, chi vuole bere vino deve comprarselo in enoteca o supermercato, o farselo consegnare, con un’ulteriore spostamento dei volumi dal canale Horeca a quello dell’asporto o e-commerce. Ma, rispetto a qualche mese fa, c’è stata un’evoluzione dell’offerta e come il food delivery potrebbe portare a ulteriori cambiamenti per il vino?


Nel mio precedente post di tempo fa (Effetti del lockdown) scrivevo che “il COVID-19 dovrebbe aver insegnato a tutti che la richiesta del mercato attuale è per avere un servizio che effettui consegne con qualità. Seguendo quanto successo nella ristorazione, sono le aziende vinicole e il loro sito e-commerce, così come le enoteche con un punto vendita fisico o virtuale non così funzionale a doversi adattare.”

In questi mesi ho notato diverse aziende approcciare la vendita diretta tramite sito di proprietà, nonché sorgere nuovi portali. In pratica, il cliente fidelizzato al marchio o che vede le inserzioni sponsorizzate sui canali social (alcune delle quali mi hanno fatto storcere il naso, per la poco corretta gestione di brand affermati) viene indirizzato nello shop e può così acquistare alcune bottiglie, in qualche caso con prezzi competitivi. Oppure si può rivolgere ai portali multimarca, i vari Vino75, Callmywine o Tannico, che però hanno denotato qualche passaggio a vuoto nei tempi di consegna, a fronte di un’indubbia crescita dell’offerta e della movimentazione. Quando le bottiglie arrivano, il cliente si attrezza per il loro stoccaggio, stappandole all’occorrenza, spesso in abbinamento con il cibo o, addirittura, preparando il cibo giusto per quel vino.

Il food delivery sta facendo sorgere nuove tipologie di locali, a dimostrazione che il mondo della ristorazione è molto sensibile all’innovazione e all’adattamento. Da un lato abbiamo ristoranti tradizionali che hanno saputo adattare i propri piatti, le cotture e i contenitori utilizzati, al fine di farli giungere sulla tavola domestica dei propri clienti nel modo migliore. Da un altro, è previsto addirittura un vero e proprio assemblaggio a cura del cliente, con istruzioni e video, come quanto realizzato da cuochi e professionisti conosciuti come Giuseppe Iannotti di Kresios a Telese Terme, Cristiano Tomei dell’Imbuto a Lucca o, nel mondo dei lievitati, Simone Padoan della pizzeria I Tigli di San Bonifacio.

Ma l’ultima realtà ad emergere è quella dei ristoranti completamente specializzati nel delivery, le c.d. “ghost kitchen”, laboratori di cucina senza sala e coperti, che vendono attraverso APP e sito e-commerce, canale con possibilità di sviluppo tutt’altro che banali (“il mercato globale dei pasti a domicilio è valutato 35 miliardi di dollari con una crescita annua del 20% che lo porterebbe alla cifra stratosferica di 365 miliardi entro il 2030”).

Il ragionamento che vorrei fare concerne un bisogno nuovo, che sorge proprio con l’affermarsi del food delivery. Il lockdown e/o il lavoro da casa possono portare a non muoversi dall’abitazione anche per giorni, salvo brevi spostamenti. Non necessariamente si ha un’enoteca o un punto vendita qualificato vicino a casa. Tuttavia si vuole usufruire della consegna a casa di cibo, magari preparato da uno dei nostri ristoranti preferiti, al quale vogliamo abbinare qualche vino specifico. Potrebbe essere una ricorrenza o semplicemente si vuole indulgere in una serata piacevole, per ritemprarsi dall’ansia provocata dalla pandemia. Vogliamo un vino, quel vino, lo vogliamo ora.

La nicchia di wine delivery “just in time” è quella più critica: l’enoteca che consegna a casa potrebbe essere chiusa, i portali o le aziende ci mettono giorni. E quindi? Che spazio e quale business model serve per sviluppare un servizio congiunto che permetta a chi ordina il cibo di scegliere anche il vino o la bevanda che vuole abbinare (vale anche per la birra, gli spirits o i cocktail)? Penso ad un integratore che consenta, partendo dal bisogno di bere o dal mangiare, di offrire diverse esperienze (cucine, tipologie) e opportunità (anche di prezzo), offrendo una soluzione e una consegna congiunta.

Da qualche tempo è attivo il servizio di Winelivery, una APP creata da una start-up che sta investendo in una campagna di comunicazione molto presente su diversi media, che ha come Unique Selling Proposition: “Da te, direttamente dal produttore, in 30 minuti a temperatura di servizio”. Non l’ho ancora testata ma credo ciò avverrà a breve perché mi ha incuriosito. Potrebbe essere una prima soluzione, sebbene (ancora) non integrata col food delivery?

Effetti del lockdown

Abbiamo imparato qualcosa da questi mesi di lockdown? Cosa può insegnare questa esperienza a chi si occupa di marketing del vino?

Vorrei, una volta tanto, essere conciso: per me dalla quarantena ne è uscita vincitrice la distribuzione. Non mi riferisco solo al settore economico, segnatamente GDO, E-commerce e Delivery, a scapito di un Horeca che in parte si è adattato (Delivery, appunto, o Takeaway) ma che si prevede soffrirà per almeno il resto dell’anno. Mi riferisco soprattutto alla leva del marketing, la famosa “P” di Place o Placement.

Mentre, in questi, mesi, l’interesse è stato rivolto soprattutto alla leva della Comunicazione, con il ricorso crescente e, spesso, improvvisato, a webinar, degustazioni on-line, incontri virtuali, dirette Instagram e quant’altro, sono sempre più convinto che la vera chiave di volta per leggere come le aziende vinicole hanno affrontato, e stanno affrontando, la pandemia sia da trovarsi nella capacità di gestire la leva distributiva. Prima, durante e dopo.

Da un lato, sarebbe facile dire che chi vendeva già prima in GDO è stato avvantaggiato, ma è anche vero che una fetta importante del vino nel canale moderno vedeva calare i volumi, mentre la crescita del consumo pro-capite registrata negli ultimi anni era dovuta al fuoricasa. Tuttavia molte aziende che, strategicamente, pur avendo costruito il proprio brand nell’Horeca, avevano inserito o mantenuto una presenza in GD, anche con linee o marchi dedicati, sono state premiate, a differenza di altre che, pur potendo affrontare le difficoltà del retail, lo avevano scartato.

Allo stesso modo le vendite on-line. Se prima erano i rivenditori a bussare le porte delle aziende, spesso inutilmente, negli ultimi mesi la situazione si è invertita. Il canale dell’e-commerce esce dall’emergenza del Coronavirus come il vero vincitore, come ho scritto nell’introduzione al report “Italy Wine Landscapes 2020” pubblicato recentemente da Wine Intelligence. Vincitore nel senso che, finalmente, il consumatore sembra aver perso quella diffidenza verso l’acquisto di vino on-line e, anzi, ne sta apprezzando la capacità di soddisfazione di diversi bisogni tutti assieme: consegna a casa, scelta da un ampio catalogo, assortimento con copertura di diverse nicchie, comunicazione e conoscenza, grazie a siti che forniscono ampie informazioni che sullo scaffale di un supermercato o enoteca non si trovano e che, in un acquisto complesso, sono spesso richieste.

E-commerce + consegna veloce

Ecco che, quindi, ha fatto la differenza la capacità delle aziende di operare direttamente con i grandi siti di vendita on-line e non, come in molti casi accade, attraverso agenti o grossisti che le gestiscono come un’enoteca tradizionale, spesso all’insaputa dell’azienda stessa. Gestione della distribuzione nel canale e-commerce significa soprattutto apprendere a presidiare il prezzo di sell-out e delle scontistiche, controllare la comunicazione del prodotto e del brand stesso, monitorare la presenza e le vendite proprie e della concorrenza.

Alcune aziende, poi, hanno rispolverato il proprio sito di vendita diretta. Scrivo “rispolverato” proprio perché, fino a pochi mesi fa, se c’era era tenuto semi nascosto. “Ce l’abbiamo ma non lo pubblicizziamo per non creare conflitti con la rete vendita”, ti dicevano. In aula insegno ai miei studenti di Wine Business Management a valutare l’e-commerce aziendale e la vendita diretta all’interno della propria strategia aziendale, soprattutto se sono piccole e non in grado di gestire una rete agenti complessa. Ma un conto è aver sviluppato una base clienti attraverso il punto vendita e un wine club organizzato, cui proporre i vini attraverso il portale di vendita on-line, un conto è aprire una vetrina e mettersi a vendere a prezzi spesso vicini a quelli praticati alla ristorazione al fine di fare cassa! Tuttavia, diverse aziende hanno approfittato della pandemia per sviluppare il canale, dotandolo di una sua autonomia e interrelazione con gli altri, in modo positivo e alle volte creativo, come si può leggere anche in un recente articolo di Civiltà del Bere.

In generale, il COVID-19 dovrebbe aver insegnato a tutti che la richiesta del mercato attuale è per avere un servizio che effettui consegne con qualità. Seguendo quanto successo nella ristorazione, sono le aziende vinicole e il loro sito e-commerce, così come le enoteche con un punto vendita fisico o virtuale non così funzionale a doversi adattare. Chi non aveva mai lavorato con consegne dirette si è trovato nell’urgenza di dover portare il prodotto a casa del cliente pena la sostituzione con un concorrente.

Oggi viene premiato chi può offrire un servizio di consegna veloce e puntuale. Con l’auspicata ripartenza dell’Horeca, più che sulla leva prezzo (sebbene con una gestione del credito che consenta pagamenti ancor più dilazionati dell’esistente) mi aspetto attenzione alla leva distributiva, con richieste di consegne ripetute di quantitativi piccoli, mostrando competenza anche in termini di igiene e protezione contro il coronavirus sia per il cliente che per chi consegna. In questo modo, aumenteranno le possibilità di rimanere sul mercato in questo momento di crisi, perché il cliente soddisfatto tenderà a continuare a fare affari con questa azienda, ne parlerà bene e ne consiglierà i servizi ad altre persone.

Quindi, anche la gestione della logistica che si preoccupa di arriva con professionalità alla consegna finale, con la scelta del partner giusto, diventa una scelta di marketing non solo tattica, che rientra all’interno della leva distributiva.

Fare marketing del vino in epoca di Coronavirus

In attesa di sapere quando e con quali modalità si potranno riprendere le tradizionali attività lavorative, avendo compreso che, ad es., il 2020 sarà da considerarsi un anno sabbatico per eventi e fiere vinicole, l’emergenza Coronavirus sta mettendo alla prova chi si occupa di marketing e vendite del vino.

Con l’Horeca al palo da fine febbraio, riusciranno gli altri canali a mantenere un livello di vendite e redditività per le aziende?

Il vino in GDO in crescita di circa il 9-10%, ma ovviamente per chi era già referenziato e non per tutte le tipologie (vedi il rallentamento delle vendite degli spumanti).

L’e-commerce vola a doppia cifra per i rivenditori multimarca, tipo Tannico o Vino75, che già crescevano, a dire il vero, nell’ultimo triennio. Da alcune cifre che ho letto, a fine anno potrà valere circa il 2% delle vendite complessive, ma non potrà certo supplire alle mancate vendite della ristorazione e delle enoteche.

La novità è data da una pletora di aziende che prima aborrivano la vendita on-line e che oggi si improvvisano, con una gestione dei listini piuttosto fantasiosa e che fa già pensare ai conflitti di canale e di posizionamento di prezzo in generale (diversi ristoratori mi hanno segnalato che ci sono aziende che vendono sul proprio sito allo stesso prezzo del listino Horeca!). Cosa faranno del loro e-commerce una volta che riapriranno bar e ristoranti?

Attenzione, io sono fautore della vendita diretta, in varie forme, per diversi segmenti dell’offerta vinicola (soprattutto per i piccoli che non possono permettersi reti commerciali strutturate). Ma deve essere pianificata e gestita in armonia con identità e posizionamento aziendale.

Vendita diretta che coinvolge anche la porta della cantina, ossia il wine shop, dove oggi non si recano gli enoturisti (soprattutto stranieri) che stavano fornendo flussi di cassa sempre più interessanti, magari soggiornando in una delle tante strutture ricettive che hanno via via contraddistinto il business model di diverse cantine, un po’ in tutte le regioni italiane. Enoturisti che, se va bene, riprenderanno a girare tra qualche mese.

Quindi, in un momento di transizione quale quello che stiamo vivendo, anche il marketing del vino deve sapere trovare nuove strade o adattarsi alla situazione in modo non passivo.

Per fornire qualche utile spunto di riflessione alle aziende, come Wine Intelligence stiamo pubblicando diversi articoli (li potete trovare anche alla nostra pagina LinkedIn), tra cui uno che contiene 5 chiari suggerimenti per chi gestisce il wine marketing aziendale, che possono essere letti in un articolo riepilogativo di WineNews. Ne sottolineo due: investire in comunicazione e non svendere il prodotto, sebbene la prossima vendemmia sia da qua a quattro mesi.

A livello di settore meglio spingere con le diverse Associazioni di categoria verso una politica comune che porti a limare le eccedenze e a diminuire il prossimo raccolto, nelle forme e nelle modalità ritenute più consone dalla filiera, compatibilmente con i vincoli comunitari e legislativi (distillazione per produrre alcool sanitario, vendemmia verde, riduzione delle rese dei vini a DOP/IGP etc.). Ma a livello aziendale o di territorio, vanno evitati quei passi falsi che mettono in crisi promozione e anni di lenta elevazione del posizionamento e della percezione del prodotto.