È la globalizzazione, bellezza

Su Linkedin ho trovato, riportato dall’amico e collega Rodrigo Lanari (che è stato intervistato), un articolo molto interessante su come alcuni brand vinicoli globali si stiano muovendo per conquistare o per rientrare in mercati dove fattori esterni (politici o economici) hanno variato sensibilmente la loro competitività.

In prarica, per aggirare gli alti dazi (219%) imposti da un paio di anni dal governo cinese sui vini australiani, Casella Family stringe una partnership con la cantina cilena Santa Carolina, iniziando a produrre l’etichetta [Yellow Tail] in Cile. [Yellow Tail] è stata considerata da Wine Intelligence come il marchio vinicolo più forte al mondo (non il più prestigioso, intendiamoci, ma quello che ha più potere sui consumatori globali). Ciò le consente riprendere in mano il mercato senza quasi che i consumatori se ne accorgano. Ma non basta: quella cilena sembra essere solo la prima esperienza, in quanto rientra nella creazione di una più ampia linea chiamata [Yellow Tail World Series], come scrive anche Natalie Wang su Vino Joy News.

La mossa si rivela strategica per accaparrarsi una fetta della rivale Penfolds nel mercato cinese. Mentre la Cina rappresentava solo il 3% del fatturato della famiglia Casella e di [Yellow Tail] nel 2021, per il concorrente Penfolds (marchio australiano del gruppo TWE – Treasure Wine Estates), il mercato cinese ha rappresentato lo scorso anno il 25% del fatturato e quest’anno il risultato è stato mediocre.
Tuttavia, la soluzione di Penfolds è stata quella di dirigersi in Sud Africa, dove hanno iniziato a produrre la linea Rawson’s Retreat, realizzata con uve sudafricane e in vendita esclusiva per la Cina. Penfolds ha, inoltre, in progetto di aprire un’azienda vinicola in Cina e produrre tutto localmente.

Parallelamente, la californiana Barefoot ha anch’essa iniziato a imbottigliare vino cileno per rivolgersi in primis al mercato sudamericano, a iniziare da quello in crescita del Brasile. Il nome Barefeoot viene prima della questione dell’essere californiano o cileno.

Potere della globalizzazione o del brand?

La geografia del lusso cambia. Deve cambiare anche la comunicazione del vino?

La Cina, dopo il difficile biennio della pandemia che stiamo ancora passando, potrebbe essere ancor più del passato un’occasione da non perdere per le aziende vinicole italiane del retail.

L’economia cinese, infatti, sembra aver sofferto meno di altri paesi degli effetti della pandemia, riuscendo a riprendersi più velocemente, con un tasso di crescita che diversi analisti hanno stimanto attorno all’8-9%. Questo scenario può aprire le porte a un rimbalzo dell’export vinicolo italiano che, negli ultimi anni si è un po’ arenato?

Da diverse ricerche e dal confronto con operatori di aziende vinicole che ci lavorano da anni, è confermato che fare affari in Cina non è un’operazione che si può improvvisare: non basta partecipare a una delle tante fiere o missioni commerciali (quando anch’esse torneranno alla normalità) per trovare un importatore. Allo stesso modo, una volta presenti sui listini degli importtori, non è semplice costruire una distribuzione caratterizzata da continuità e dal giusto posizionamento.


Vino e lusso in Cina (Foto da Jing Daily)

Le aziende vinicole, specialmente se piccole, fanno fatica ad entrare in Cina proprio per la loro dimensione, ma anche per una capacità manageriale e di conoscenza delle dinamiche del mercato stesso ancora limitate. Se la vivacità del mercato cinese di qualche anno fa lasciava pensare vi fosse ampio spazio per tutti, col tempo si è verificato sul campo che, per essere competitivi in Cina, serve un lavoro di preparazione, analisi dei consumatori e dei concorrenti, decisioni sui canali giusti attraverso i quali fare promozione e vendita, nonché una più ampia verifica dei prodotti, packaging compreso.

In un mercato come la Cina, che segue delle dinamiche molto specifiche, è importante comprendere in cosa è differente dal resto del Mondo, soprattutto da quello occidentale. I consumatori, ad esempio, grazie alla penetrazione del mobile sono molto più digitalizzati. Allo stesso modo, per un consumatore cinese cambia la percezione di ciò che è “attraente” e del significato che hanno i prodotti e i loro marchi. I consumatori cinesi, infatti, hanno forti differenze culturali rispetto a quelli occidentali e i brand italiani non vendono in Cina solo grazie al prestigio e alla conoscenza del nostro “Made in Italy”, che premia tanti prodotti, dalla moda al lusso, dal design all’agroalimentare. Non basta più avere un buon prodotto quale un vino di qualità e puntare sul lifestyle italiano per raggiungere il successo commerciale sul mercato cinese.

Soprattutto, bisogna conoscere come il mercato cinese sta cambiando e con esso i consumatori della nuova classe media che si possono permettere i prodotti occidentali quali il nostro vino. Ricordiamo, ad esempio, che già qualche anno fa Wine Intelligence aveva stimato che l’audience realmente interessata al vino importato è di circa 50 milioni di persone, a fronte di un miliardo e 400 milioni di abitanti!

Soprattutto in Cina sta cambiando il mondo legato al lusso, come ho recentemente letto in un interessante articolo pubblicato dal magazine JingDaily intitolato: “Why China Is The Only Luxury Superpower“. In pratica, in Cina stanno nascendo città focalizzate sul lusso per fare concorrenza ad altre destinazioni internazionali. Una di esse è l’isola di Hainan, diventata una destinazione di intrattenimento/viaggi/shopping che potrebbe, in pochi anni, rivaleggiare con Dubai e con i duty-free coreani, grazie una generosa fiscalità che sta reindirizzando i clienti da altre destinazioni ai negozi all’interno della Cina.

Come sarà Hainan (Foto da Attracion Management)

Oggi, il rimpatrio verso il consumo interno è uno dei cambiamenti più profondi che stanno avvenendo nel segmento del lusso. Alimentati dalle restrizioni ai viaggi legate al Covid, alcuni marchi di lusso hanno visto un aumento del 60-80% delle entrate in Cina nel 2020, mentre l’industria è crollata in altre aree del mondo. Alcune previsioni stimano che la Cina rappresenterà più del cinquanta percento del mercato globale del lusso già nel 2025 rispetto alla precedente previsione del 2030.

E la crescita del consumo di lusso domestico cinese continuerà a crescere dopo che circa 400 milioni di persone saranno passate da famiglie a basso reddito a famiglie di classe medio-alta nei prossimi anni. Questa crescita alimenterà sicuramente un’ulteriore domanda di beni di lusso in Cina.

Inoltre, anche la generazione Z cinese, la generazione più ricca e digitale, sta scuotendo il mercato. Questi Gen Zer non sono solo ottimisti con un’alta propensione alla spesa per i marchi di lusso, ma sono anche molto più patriottici rispetto alle generazioni precedenti.

In un altro articolo, che riprende uno studio di Altagamma, ho letto che l’Italia, sebbene sia il Paese più desiderato dai “luxury travellers”, ma non quello più visitato: prima è la Francia, seconda la Gran Bretagna, terzo il Belpaese. Tra i fattori critici identificati ci sono una minore percezione di “standard di qualità” in strutture e servizi, la mancanza di un’offerta di intrattenimento e di eventi per un pubblico affluente globale, la complessità logistica di un Paese ricco di bellezza diffusa sul territorio, la mancanza di pochi messaggi chiari alla massa critica.

In un’intervista al Vinitaly Wine Ambassador J.C. Viens, pubblicata da Wine Meridian, si scrive giustamente che, per avere successo in Cina, dobbiamo capire il rapporto del consumatore cinese con il lusso e con le modalità attraverso le quali il consumatore cinese si sente ispirato dal lusso italiano e dai quei prodotti che forniscono una forte sensazione di poter arricchire la qualità del loro stile di vita. “Per diversi anni ho sostenuto il seguente approccio in questo mercato affascinante: in Cina, il vino non è un bisogno (una merce), è un desiderio (una voglia), quindi il modello di marketing del lusso è forse l’unico approccio per il successo”, dice Viens. “L’essenza del lusso è offrire un valore estremo, un valore non dettato dal rapporto tra prezzo e qualità, bensì legato valore è il grado in cui un vino può generare una profonda emozione. Così come la moda italiana ispira i consumatori cinesi a sentirsi bene con se stessi, i vini italiani devono convincere che possono ispirare lo stesso”.

Forse, per raggiungere questi nuovi consumatori, è venuto il momento per ripensare la tradizionale strategia di promozione del vino italiano, basata su modelli occidentali quali l’abbinamento, la quotidianità del vino a pasto, i micro-terroir e, invece, costruire una percezione ispirata al mondo del lusso, capace di attirare non solo quei turisti che già visitano l’Italia ma anche quelli che non lo fanno o, addirittura, si preparano a frequentare destinazioni del lusso all’interno della Cina stessa?

Fare marketing del vino in epoca di Coronavirus

In attesa di sapere quando e con quali modalità si potranno riprendere le tradizionali attività lavorative, avendo compreso che, ad es., il 2020 sarà da considerarsi un anno sabbatico per eventi e fiere vinicole, l’emergenza Coronavirus sta mettendo alla prova chi si occupa di marketing e vendite del vino.

Con l’Horeca al palo da fine febbraio, riusciranno gli altri canali a mantenere un livello di vendite e redditività per le aziende?

Il vino in GDO in crescita di circa il 9-10%, ma ovviamente per chi era già referenziato e non per tutte le tipologie (vedi il rallentamento delle vendite degli spumanti).

L’e-commerce vola a doppia cifra per i rivenditori multimarca, tipo Tannico o Vino75, che già crescevano, a dire il vero, nell’ultimo triennio. Da alcune cifre che ho letto, a fine anno potrà valere circa il 2% delle vendite complessive, ma non potrà certo supplire alle mancate vendite della ristorazione e delle enoteche.

La novità è data da una pletora di aziende che prima aborrivano la vendita on-line e che oggi si improvvisano, con una gestione dei listini piuttosto fantasiosa e che fa già pensare ai conflitti di canale e di posizionamento di prezzo in generale (diversi ristoratori mi hanno segnalato che ci sono aziende che vendono sul proprio sito allo stesso prezzo del listino Horeca!). Cosa faranno del loro e-commerce una volta che riapriranno bar e ristoranti?

Attenzione, io sono fautore della vendita diretta, in varie forme, per diversi segmenti dell’offerta vinicola (soprattutto per i piccoli che non possono permettersi reti commerciali strutturate). Ma deve essere pianificata e gestita in armonia con identità e posizionamento aziendale.

Vendita diretta che coinvolge anche la porta della cantina, ossia il wine shop, dove oggi non si recano gli enoturisti (soprattutto stranieri) che stavano fornendo flussi di cassa sempre più interessanti, magari soggiornando in una delle tante strutture ricettive che hanno via via contraddistinto il business model di diverse cantine, un po’ in tutte le regioni italiane. Enoturisti che, se va bene, riprenderanno a girare tra qualche mese.

Quindi, in un momento di transizione quale quello che stiamo vivendo, anche il marketing del vino deve sapere trovare nuove strade o adattarsi alla situazione in modo non passivo.

Per fornire qualche utile spunto di riflessione alle aziende, come Wine Intelligence stiamo pubblicando diversi articoli (li potete trovare anche alla nostra pagina LinkedIn), tra cui uno che contiene 5 chiari suggerimenti per chi gestisce il wine marketing aziendale, che possono essere letti in un articolo riepilogativo di WineNews. Ne sottolineo due: investire in comunicazione e non svendere il prodotto, sebbene la prossima vendemmia sia da qua a quattro mesi.

A livello di settore meglio spingere con le diverse Associazioni di categoria verso una politica comune che porti a limare le eccedenze e a diminuire il prossimo raccolto, nelle forme e nelle modalità ritenute più consone dalla filiera, compatibilmente con i vincoli comunitari e legislativi (distillazione per produrre alcool sanitario, vendemmia verde, riduzione delle rese dei vini a DOP/IGP etc.). Ma a livello aziendale o di territorio, vanno evitati quei passi falsi che mettono in crisi promozione e anni di lenta elevazione del posizionamento e della percezione del prodotto.

Liberalizziamo le can…?

Ho più volte scritto che il trend del vino in lattina non è solo una questione di nicchia negli USA.

Mentre noi in Italia stiamo ancora a discutere di tappi alternativi o a vite, di bag-in-box o bottiglie da 0.187, continuando a fare ironia sul Tavernello, intere fasce di consumatori nei mercati dove vogliamo e dobbiamo essere maggiormente presenti sono già oltre. E lo sono acquistando vini da 10-15$ al litro.


Leggo oggi che Union Wine Company, produttore dell’Oregon con il marchio Underwood (che ebbi modo di assaggiare a ProWein già lo scorso anno) ha iniziato a sponsorizzare le squadre di calcio di Portland, producendo lattine di vino con i colori sociali, allo scopo di sostituire almeno in parte la birra tra i tifosi. Un altro esempio di prodotto->target->occasione di consumo.

La scorsa estate in California si è tenuto il primo concorso per vini in lattina, International Canned Wine Competition, cui hanno partecipato 50 aziende con 200 vini (anche dall’Italia).

I vini premiati nella categoria Packaging

Se il vino in lattina non sarà un sostituto dei segmenti alti dell’offerta, molti produttori “mee-too” di fascia intermedia dovrebbero chiedersi se questo formato di packaging può essere una soluzione per raggiungere quelle fasce di consumatori oggi non interessate.

Ricordiamoci che il vino in lattina si aggiunge al mercato esistente e non cannibalizza le vendite di vino in bottiglia, grazie ad una serie di driver di mercato ben specifici:

  • Praticità
  • Capacità di estendere le occasioni di consumo (vedi assistere alla partita)
  • Sostenibilità / Risparmio sui costi
  • Aspetto visivo / Branding (grazie alle possibilità di design e personalizzazione)

La lattina, ove ha successo, viene utilizzata per vendere vini equivalenti a quelli in bottiglia, non succedanei di fondi di vasca come ormai accade per molte bollicine entry-level che vogliono vivere nell’ombra del successo commerciale del Prosecco. Come già accaduto con altri packaging alternativi (vedi la chiusura a vite), per molti consumatori non deve cambiare la qualità ma si deve soddisfare un diverso bisogno. Who can try?

La Ribolla è in crisi? Si, di marketing

Ma come, la Ribolla Gialla non doveva essere il nuovo, ennesimo, vino bandiera del Friuli Venezia Giulia?


La vendemmia 2019 è stata accompagnata da articoli, discussioni e trasmissioni televisive sulle emittenti locali (ad es. “Una bolla chiamata Ribolla, siamo ai saldi?” su Telefriuli) per stigmatizzare un apparente crollo della quotazione dell’uva sul mercato. Crollo che ha visto una conseguente isteria dei viticoltori che, in questi anni, hanno piantato circa 1500 ettari nella pianura, portando la superficie vitata a circa 1800 ha totali. Eppure, da parte dei produttori di collina di Collio e Colli Orientali, questo crollo pare non essersi avvertito, come comunicato dai due Consorzi di tutela che, nel frattempo, stanno faticosamente lavorando per arrivare ad una proposta volta a identificare e proteggere la produzione tradizionale di questo vitigno.

Tutela che, nel frattempo (perché in FVG avvengono molte cose “nel frattempo”) viene chiesta a gran voce dai sindacati di categoria, dalle associazioni, dai diversi partiti politici, al fine di “mettere in sicurezza” il nome e la tutelarità della Ribolla Gialla da attacchi esterni, sia nazionali (pare, così si dice sottovoce, che nel Veneto Orientale siano alcune centinaia gli ettari piantati a Ribolla Gialla, vitigno che entra/entrava nel disciplinare dell’IGT “delle Venezie”) che transfrontalieri (nel BRDA sloveno è una delle varietà più diffuse), per non trovarsi con un nuovo “caso Tocai”.

Il primo passo sembra essere il cambio del nome del vitigno, tattica inaugurata dal Prosecco che, almeno, aveva un riferimento geografico ed un sinonimo acclarato con quella Glera che, dall’altipiano carsico, si era poi espansa fino a raggiungere le colline del trevigiano. E dove la geografia non poté, si diede de facto un nome di toponimo ad una zona dei Colli Bolognesi per tutelare il Pignoletto. Spero non si voglia cercare una strada analoga perché il Comune di Ribolla esiste ma è situato in provincia di Grosseto!

Ha molto più senso quanto proposto dall’Associazione Ribolla di Oslavia per una DOCG molto caratterizzata, come sono i vini di quella parte del Collio e di quelle aziende che vedono nel vitigno una parte della loro identità.

Eppure…

Eppure questa situazione era stata ben prevista già da tempo. Ad es. da un imprenditore che sta facendo della Ribolla Gialla un vino di successo, quale Valerio Civa, che con la sua Tenimenti Civa è oggi un riferimento del vino friulano nel canale moderno. Allo stesso modo da un osservatore esterno quale Andrea Gori che su Intravino più di un anno fa parlava del pericolo di “venetizzazione”.

Eppure…

Eppure negli ultimi anni la Ribolla Gialla è un vitigno di indubbio successo, almeno sul mercato italiano. A leggere i dati IRI presentati puntualmente al Vinitaly è uno dei vini di maggiore crescita, avendo superato i 4 milioni di bottiglie.

Eppure…

Eppure se un vino deve essere il portabandiera di una zona dovrebbe costruirsi una reputazione che si trasferisca al territorio e viceversa. Non è questione di prezzo ma di soddisfazione dei bisogni di una precisa fascia di consumatori che vedono in quel prodotto la migliore alternativa possibile per motivazioni possibilmente non legate al prezzo. Si parla di costruzione di un valore intangibile che è alla base di un conseguente marchio. Si può ragionevolmente affermare che la Ribolla Gialla sia percepita come il prodotto che identifica il FVG e che ne eleva la percezione quale territorio vinicolo, con conseguenti ricadute positive sul turismo e l’indotto?

Personalmente nutro ancora qualche dubbio. Se è indubbio che in questi anni in Italia si parli di Ribolla Gialla friulana, è vero che se si interrogano i consumatori (ma anche molti operatori) su quale sia la Ribolla e quale immagine abbia, temo molti avrebbero difficoltà a rispondere. Sarà quella ferma vinificata in acciaio per esaltarne le note di freschezza? Quella vinificata in legno proposta da alcuni produttori di collina? Sarà la versione “orange wine”, macerata o ambrata, come viene chiamata quella che si identifica, appunto, principalmente con quella prodotta a Oslavia e dintorni? O invece è quella spumantizzata che viene proposta dai produttori prevalentemente di pianura, ma non solo? E tra quella spumantizzata, sarà quella che sosta brevemente in autoclave, quella che utilizza uno Charmat più lungo (fino all’ormai famoso “metodo Collavini” dall’azienda che ha portato questo prodotto alla ribalta già da alcuni decenni) o addirittura il metodo classico?

Intendiamoci, anche dal punto di vista del marketing, la versatilità di un vitigno che si presta a diverse interpretazioni è un potenziale punto di forza. A patto che sia, se non l’unico, il vitigno principale di una zona. Vedi Verdicchio per le Marche o Chenin Blanc per la Loira centrale.

Ma qui, invece, siamo in una regione che autorizza la coltivazione, tra le diverse DOC, di una ventina di vitigni e che ha circa il 50% della superficie (e a spanne almeno il 60% dei volumi) riservata a due vitigni che non si considerano identitari, ossia Pinot Grigio e Glera, che entrano appunto all’interno di Denominazioni transregionali non gestite in FVG. Inoltre, come sottolineato anche quest’anno nella prefazione alle schede delle aziende recensite nella Guida Slow Wine, di cui sono stato alla presentazione a Montecatini il 12 ottobre, il tessuto produttivo friulano è sensibilmente cambiato negli ultimi 10 anni, vedendo ormai un buon 25% della produzione a bollicine e una quota dei vitigni rossi sempre più residuale.

Ma, tornando alla nostra reputazione, se sfogliamo la Guida Slow Wine, di Ribolla Gialla che abbia ottenuto qualche riconoscimento c’è solo quella di Gravner. Identitaria del produttore e della microzona già citata, ma non certo rappresentativa dei 1800 ettari vitati. Tra i vini che hanno ottenuto i “Tre Bicchieri” del Gambero Rosso nessuna Ribolla Gialla e, a memoria, non ricordo più di 4-5 etichette negli ultimi 20 anni. Se invece prendiamo la Guida Ristoranti e Vini dell’Espresso, di cui sono stato oggi alla presentazione a Firenze (vivere ormai in Toscana ha diversi vantaggi…), scopriamo che le “5 bottiglie” sono state assegnate a Miani (per chi lo conosce, Enzo Pontoni non è proprio un produttore di volumi…), mentre le “4 bottiglie” nella categoria dei vini sotto i 15€ le guadagna un vino a me sconosciuto, una Ribolla Gialla IGT di tal Filare Italia che credo sia un brand commerciale.

Non voglio ridurre un concetto chiave come la reputazione ai premi delle Guide o ai punteggi di riviste e critici internazionali, ma evidentemente un legame c’è, come affermato da tutta la letteratura di marketing del vino. Ad es. sulle condizioni che portano un vino ad essere considerato un “fine wine” suggerisco questo articolo di Wine Intelligence.

Penco, e quindi?

E quindi per costruire la reputazione di un vino o vitigno e trasferirla alla zona di produzione serve tempo, servono produttori che sappiano affermarsi, serve uno stile ma, oggigiorno, serve una strategia di posizionamento. Cosa vuole essere la Ribolla Gialla, un vino da tutti i giorni o un vino anche prestigioso? Una bollicina succedanea del Prosecco o una sua alternativa “premium”? E per entrare nel novero dei “fine wines” deve scegliere la strada della macerazione sulle bucce?

Se guardiamo ad altre esperienza virtuose, dal Sauvignon della Nuova Zelanda al Grüner Veltliner austriaco fino ai rosati della Provenza, possiamo affermare che c’è sempre dietro una precisa pianificazione che nasce da analisi di mercato, analisi sui gusti e i bisogni dei consumatori, che hanno portato a ricercare e attuare precise strategie di posizionamento di identità e immagine poi tradotte in strategie promozionali e commerciali, da cui il Friuli Venezia Giulia non può esimersi se non vuole perdere anche questa occasione ma subire gli eventi rimanendo a discutere internamente.

Se le previsioni che stimano, a regime, una produzione potenziale di circa 20 milioni di bottiglie dai 1800 ettari complessivi, infine, tale strategia risulta ancor più indispensabile e urgente.

Uno spettro si aggira per la vigna

Da diversi anni sono abbonato alla Revue de Vin de France ma, da quando ho abbandonato il cartaceo per il solo digitale, la lettura viene spesso rimandata di settimane se non mesi, attendendo un viaggio in treno o in aereo (e dovendo competere con l’analoga versione di Decanter).

Solo oggi, quindi, ho iniziato a sfogliare il numero di ottobre 2018, soffermandomi in particolare sull’editoriale del direttore Denis Saverot, che ha preso spunto da un articolo sull’Alsazia per scrivere alcune riflessioni sui vini biologici e sulla biodinamica. In particolare trovo che alcune affermazioni abbiano dei risvolti importanti anche per chi si occupa di marketing e di strategia.

“Non è una bravata, per non dire una moda. È un’onda profonda. Domani, il grande vino ma anche il vino da beva, non potranno più essere associati a trattamenti chimici del suolo e delle piante. Sarà impossibile giustificare che, in nome della lotta contro la muffa, i Premiers Crus classés bordelais siano ancora trattati con fosetil-alluminio. Chi sarà orgoglioso di stappare un Grand Cru di Champagne o di Chablis da un terroir pieno di glifosato?”

Che non sia una moda lo scriviamo da un po’ di tempo anche a Wine Intelligence. Io stesso mi sono occupato di descrivere come stia emergendo un profilo di consumatore specifico che attribuisce al vino valori e stili di vita differenti da altre tipologie di bevitori. Nel nostro rapporto sui vini alternativi abbiamo evidenziato come il vino biologico e, in misura ancora minore, biodinamico e sostenibile, sia non solo conosciuto e accettato, ma sempre più richiesto dai consumatori di quasi tutti i mercati mondiali. E questo non solo nella fascia 5-15€, in cui attualmente sembra avere maggior appeal un bollino o una certificazione formal.

Quando Saverot prosegue scrivendo che: “Lungi dall’essere un handicap, l’avvento del biologico è il passaporto più sicuro per il futuro del vino” mi fa pensare che prossimamente ai vini di fascia alta il passaggio da una viticoltura convenzionale a una environmentally friendly (senza entrare nel dettaglio se un metodo bio-qualcosa sia più efficace o meno) non sarà richiesto solo per garantire una migliore aderenza alle caratteristiche del terroir, come scrive sopra. Ma soprattutto per mantenere un posizionamento di prezzo che non sarà più così scontato.

Se Château Latour ha completato la conversione biologica e Margaux sta da anni sperimentando la biodinamica (per non citare alcuni tra i più prestigiosi produttori di Champagne, Borgogna o Rodano, ma anche di riesling tedesco o di varie regioni italiane) non è solo per una maggiore sensibilità ambientale, ma soprattutto per continuare ad alimentare il marchio con  valori intangibili che i loro consumatori (reali, potenziali o aspirazionali) valutano positivamente.

La stessa critica, che ha una forte influenza sul segmento dei vini di prestigio, potrebbe richiedere esplicitamente questa scelta, pena l’esclusione o il ridimensionamento dei punteggi. Già da alcuni anni la Guida Slow Wine riserva i premi più prestigiosi alle aziende che hanno escluso il diserbo chimico dalle proprie pratiche agronomiche. Cosa accadrebbe ai tanti “immobilisti” se i vari Parker, Wine Spectator o Decanter, comprendendo il cambiamento anche culturale in atto tra i consumatori e i propri lettori, compiessero scelte analoghe? 

I “fine wines”, questi sconosciuti

Lo scorso 1 febbraio ho partecipato come relatore alla Conferenza annuale della Valpolicella, tavola rotonda di introduzione alle giornate dedicate ad Anteprima Amarone. Tradizionalmente questo appuntamento, che riunisce a Verona giornalisti, degustatori, operatori e amanti del vino, apriva la stagione delle anteprime dei grandi vini italiani, da quest’anno anticipato dalle analoghe manifestazioni piemontesi.

Foto del convegno pubblicata da winemeridian.com

Come Wine Intelligence recentemente abbiamo realizzato una ricerca, commissionata dal Consorzio Tutela Vini Valpolicella, sui consumatori di “fine wines” in alcuni mercati tra i principali mercati internazionali e, in questa occasione, ci siamo confrontati con altri esperti sull’importanza, per l’Amarone e il suo territorio, di essere riconosciuto all’interno di questa categoria.

Ma cosa si intende per “fine wine”? Una volta si parlava di “vini fini” per distinguere quelli imbottigliati da quelli da tavola, generalmente acquistati sfusi. Oggi tale nome viene comunemente attribuito a bottiglie di pregio e che, per usare la definizione del critico inglese Hugh Johnson, sono quei vini di cui vale la pena parlare.

Inoltre, quando un vino diventa “fine”? Dipende dal livello di prezzo, dalla scarsità o dalla percezione di prodotto di lusso? Ma, soprattutto, questa qualifica di “fine wine” è universale oppure può variare da mercato a mercato? E che dire di un vino “di pregio” venduto in un contenitore alternativo oppure in un canale di vendita meno prestigioso (penso all’hard discount): rimane comunque un “fine wine” o cambia la sua percezione?

Forse, prima di etichettare un vino come “di prestigio” dobbiamo chiederci quale sia la sua percezione da parte del destinatario finale, ovvero il consumatore che sceglie la bottiglia. Quali sono le caratteristiche che, chi fruisce del prodotto, gli attribuisce? Il consumatore, infatti, prima di compiere una scelta sulla base di svariate motivazioni di acquisto (dall’occasione al canale), sviluppa una percezione del prodotto mediando tra i suoi input psicologici e quelli di marketing (dal brand al packaging).

Per questo, soprattutto in assenza di una definizione condivisa su cosa si intenda per “fine wines”, è importante conoscere meglio chi generalmente li acquista, ovvero quei consumatori regolari che associano uno specifico interesse per il vino ad un livello di spesa medio superiore ad una soglia psicologica (corrispondente a 20$ negli USA). Se il prezzo rimane uno dei fattori di scelta più importanti, per un consumatore di vini “premium” sono fondamentali anche altre discriminanti legate al suo grado di coinvolgimento con il prodotto, quali ad es. il canale di acquisto o l’occasione di consumo.

Ecco che, alla domanda su quali fossero i fattori che associano alla tipologia dei “fine wines”, il campione dei consumatori regolari di vini premium intervistati ha risposto con:
• un gusto equilibrato e armonico
• una capacità di essere qualitativamente costanti nel tempo
• essere prodotti in una zona vinicola di riconosciuto prestigio
• viceversa il prezzo alto non risulta particolarmente rilevante
Seguono poi i riconoscimenti della critica, una produzione abbastanza limitata, un legame dimostrato con il luogo di origine, etc.

Questi consumatori, inoltre, hanno un repertorio più ampio e spendono maggiormente in tutte le occasioni di consumo, a iniziare da quelle legate alla ristorazione, affermando di acquistare direttamente dalle cantine o essere interessati alla pratica dell’enoturismo in percentuale molto superiore al consumatore regolare medio. Per cui un turismo di qualità è una delle chiavi di volta strategiche su cui, a mio parere, si deve investire per aumentare la percezione di un territorio e dei suoi vini.

Ne ho avuto ulteriore conferma partecipando anche quest’anno alle anteprime fiorentine di Chianti DOCG e Morellino di Scansano (“Chianti Lovers“) e del Chianti Classico, il 10 e 11 febbraio. Vini dal posizionamento diverso, con un’impronta più quotidiana per il Chianti DOCG e per alcune sue sottozone (ma già la Rufina sta riuscendo ad essere percepita ad un livello più vicino al Chianti Classico), ma che è indubbio riescano a collocarsi entrambe in una categoria di vini di pregio quando nell’immaginario del consumatore si riesce a suscitare un coinvolgimento legato a fattori emozionali e intangibili legati alla Toscana e al lifestyle ad essa associata. Ovviamente le aziende del Chianti Classico si sono poste l’obiettivo di essere considerate come parte non solo del mondo generico dei “fine wine” ma di tutti i suoi segmenti, per i quali ha elaborato una proposta di vendita che oggi inizia a dimostrarsi ben articolata. Penso soprattutto alla Gran Selezione, che sta assumendo una fisionomia meglio definita, complementare a quelli che si chiamavano “supertuscan” e non una loro riedizione.

In conclusione, per divenire un “fine wine” non basta alzare il prezzo e investire su un packaging lussuoso. Se, ad esempio, non cresce la percezione media di tutta la zona, con prodotti che dimostrano capacità di tenuta o evoluzione e un livello qualitativo costante (o in crescita), difficilmente si verrà percepiti come vini di prestigio da un numero ampio di consumatori. E lo vediamo con belle bottiglie costose, magari pesanti e infiocchettate, che non saranno mai considerate vini iconici, mentre altre etichette non hanno bisogno di packaging estremi o campagne di comunicazione e PR dispendiose per godere di tale percezione, anche a livelli di prezzo inferiori.

Under the Tuscan brand

Quale regione vinicola italiana ha il brand più forte, soprattutto all’estero? Ovviamente la Toscana, che negli ultimi 30 anni ha saputo capitalizzare il legame tra vino, cucina, arte, paesaggio e turismo in senso ampio. Vista dal di fuori, sembra il Paese del Bengodi: per avere riconoscibilità e successo basterebbe avere una vigna di sangiovese e/o di cabernet, qualche ulivo, un viale di cipressi che porta al rustico in pietra e mattoni. Tuttavia, vista da dentro, non è sempre così.

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English Prosecco??

Nei giorni scorsi ho partecipato a una riunione interna che Wine Intelligence ha tenuto in una delle principali aziende vinicole inglesi, Ridgeview, nell’East Sussex (a un’ora di treno da Londra, verso Brighton).

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Bisogna imparare dalla birra?

Che la birra abbia imparato molto dal vino è indubbio. Dietro al successo di molti micro-birrifici o alla birra artigianale in genere c’è di sicuro un trend che vede coinvolti i consumatori, soprattutto giovani, verso prodotti considerati non industriali o scontati, con alle spalle spesso una storia legata a qualcuno che si è messo in gioco, magari ha lasciato altri impieghi per dedicarsi alla produzione di vino o birra, magari con materie prime biologiche o naturali in genere.

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