Sul numero di «Io Donna» della scorsa settimana (settimanale del Corriere della Sera) è stato pubblicato un interesantissimo articolo di Riccardo Romani intitolato: “È l’ora dei «guerilla store» La moda dei ristoranti clandestini”.
Si tratta di locali nati nelle case private o nei garage di New York o Londra, ove vengono ospitati pochi commensali, spesso gestiti da veri esperti di gastronomia, quasi per sfida verso gli chef più celebrati. “Guerilla restaurant” ove si accede solo se amici di amici di amici (una specie di multilevel marketing).
Del fenomeno hanno iniziato ad occuparsi le riviste di moda ed anche qualche investitore finanziario. “A New York i guerrilla restaurant, per così dire, ufficiali sono oltre cento, a Londra sarebbero una sessantina, tutti ispirati al tipico paladar cubano, dove letteralmente si cena a casa di sconosciuti”. Sono così sorti siti e guide proprio per scovare questi localini semi-clandestini, che potrebbero sparire da un momento all’altro.
Se, da un lato, la prima domanda che sorge è: “Ma quali vini servono in questi ristoranti?”, dall’altro mi chiedo se il settore vinicolo debba prendere in considerazione questo tipo di fenomeno o se questo possa essere considerato come una pura moda passeggera e limitata, anche geograficamente (grandi città anglosassoni).
A me stimola qualche riflessione. Mi viene in mente che anche da noi il consumo di vino nel c.d. “off trade” ha sostanzialmente tenuto anche in questi momenti di crisi economica, mentre quello nell’on-trade ha registrato un sensibile calo, soprattutto nella ristorazione e meno nel circuito di enoteche e wine-bar (fenomeno che forse ha raggiunto, comunque, l’apice nel suo ciclo di vita).
Se il consumo per asporto tiene, non si può non segnalare una polarizzazione sempre più marcata, almeno nella GDO, tra vini “da pasto” (ossia sotto i 2€ la bottiglia) e vini “di pregio” (sopra i 10€), come già più volte sottolineato.
I vini di fascia alta, a seconda delle statistiche, fanno circa il 10% del mercato in volume ed il 40% in valore (E.Pomarici, Il mercato del vino, Franco Angeli 2006), ma il canale privilegiato per il consumo degli stessi, la ristorazione, non batte chiodo da almeno un paio d’anni per diversi motivi (non ultimo il terrorismo che viene praticato in materia di patenti e sanzioni). Ciò significa che queste bottiglie vengono consumate prevalentemente tra le mura domestiche e non solo in occasione di compleanni e feste comandate.
Da un lato, a quanto mi raccontano professionisti direttamente interessati, cene e ricevimenti sono ancora in auge (chi se lo può permettere, ogni tanto chiama uno chef a cucinare a casa, qualche volta invitando pure un produttore vinicolo che presenta i suoi vini).
Da un altro, appassionati e collezionisti di vini, utilizzando social network e strumenti informatici per tenersi in contatto, organizzano degustazioni ove molte grandi bottiglie vengono stappate. Questo fenomeno, che agisce un po’ sotto traccia, è più diffuso di quanto si pensi. Ho amici che, beati loro, si fanno anche 500km per partecipare a “verticali”, “orizzontali” e wine tasting con altri collezionisti, utilizzando blog, forum, Twitter e Facebook come strumento di collegamento e diffusione, creando cerchie di appassionati cui molti sperano di ambire. Una specie di club virtuale che continua a mantenere alto l’interesse per il vino di pregio.
Alcuni produttori, conoscendo l’esistenza di questi gruppi a livello mondiale, scelgono di rivolgersi proprio ad essi come target privilegiato, non rincorrendo, ad es., la via del vino banale e facile come accade, ahimé, per la maggior parte della produzione odierna. Un po’ quello che avviene anche nella ristorazione, ove ormai una tartara di tonno o un branzino marinato non si negano a nessuno, come avveniva 20 anni fa con la tagliata alla rucola o i tagliolini al salmone.
Resta il fenomeno dei “Guerilla restaurant” e, per estensione, dei “Guerilla store”, la versione underground di molti temporary shop che nascono e chiudono in un lasso di tempo limitato (lancio di un prodotto, stagionalità in zone turistiche, sondaggio del mercato,…). Per farne un canale di vendita credo si debba essere molto dinamici e, possibilmente, fare parte della cerchia. Un conto è portarsi le bottiglie da casa quando si partecipa ad una di queste serate, un conto è andare a vendere vino. Anche se non mi stupirei se qualche produttore, forte di carisma e innovatività, riuscisse a piazzare sue bottiglie attraverso l’utilizzo degli stessi strumenti di marketing virale. Dovrebbe diventare oggetto di culto, ossia ricavarsi una piccola nicchia di differenziazione, se non altro perchè parla lo stesso linguaggio di questo target.
Un pensiero su “Guerilla restaurant & wine”